Inclusione è un termine che nell’accezione contemporanea contiene tanti significati. In ambito educativo viene inteso come processo finalizzato a garantire il diritto all’educazione per tutti, a prescindere dalle diversità di ciascuna persona derivate da condizioni di disabilità e/o svantaggio psico-fisico, socio-economico e culturale. Le persone con disabilità ammontano a circa un miliardo, il 15% della popolazione mondiale. Si stima che la maggior parte di esse viva nei Paesi in via di sviluppo, con maggiore probabilità di vivere in condizioni di povertà. (fonte MAECI 2016). Nelle scuole italiane, sono circa 258.000 le classi e 420.000 gli alunni certificati con disabilità e DSA (fonte MIUR 2016).
Attuando il nostro progetto principale, che lavora allo sviluppo di prodotti rivolti a persone con disabilità visive, si potrebbe pensare che il nostro lavoro già ottemperi alla questione dell’accessibilità. Ma questa certezza scompare se si cambia prospettiva, considerando che senza disabilità non può venire meno la preminenza dell’inclusione, poiché l’accessibilità è tanto altro. L’equivoco dell’accezione contemporanea del termine inclusione è l’origine di alcuni dei grandi problemi della società di oggi.
Gli elementi fondativi
Accessibilità universale
Questo concetto riprende l’universal design, termine coniato da Ronald Mace per descrivere l’idea di progettazione ideale di tutti prodotti e ambienti (e aggiungiamo anche processi) che siano piacevoli e fruibili in autonomia da chiunque, indipendentemente dall’età, dalla capacità e/o dalla condizione sociale.
Spostare l’attenzione dalla disabilità all’equità d’uso permette di mantenere una particolare attenzione alle persone con disabilità, ma partendo da pensare a tutto il pubblico (attuale e potenziale) nella sua eterogeneità e complessità.
Inoltre lo stesso termine “disabilità” è un concetto in evoluzione e che è il risultato dell’interazione tra persone con minorazioni e barriere attitudinali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di parità con gli altri (*). Lo svantaggio può riguardare ambiti estremamente eterogenei, come disabilità motorie, sensoriali, economiche, cognitive, economiche, culturali, linguistiche, così come coinvolgere situazioni temporanee delle singole persone.
Ma il punto centrale è che l’accessibilità non riguarda solo le persone con disabilità, come da diffusa concezione. Il concetto universalistico dell’accessibilità è chiaro e assodato ai professionisti che lavorano nelle scuole, ma sconosciuto ai più, non soltanto nel grande pubblico ma anche in altri settori dell’educazione. Basti pensare all’educazione per adulti, dove non esiste in maniera diffusa un sistema inclusivo di apprendimento permanente (lifelong learning), o anche all’educazione online, che vanta innovazione di metodi e strumenti, ma pecca nelle strategie inclusive, dove la scuola pubblica presenta molta più attenzione, ricerca e pratica.
“Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici.”
Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, all’art. 27.1
Inclusione dai “pavimenti bassi e soffitti alti”
Inclusione non è riduzionismo. Seymour Papert parlava di tecnologie (in particolare tecnologie didattiche) che devono essere come case dal pavimento basso e soffitto alto: abbastanza semplici e intuitive da permettere a tutti di utilizzarla (pavimento basso), ma sufficientemente flessibili per permettere alle persone di costruire e scoprire usi complessi e/o non previsti.
Mentre i pavimenti bassi sono storicamente un dominio dell’inclusione, i soffitti alti sono forse il versante su cui c’è maggior spazio di azione.
Inclusione non significa diluire le competenze, rendere superflue le conoscenze, e in generale sottoporre gli attori sociali a meno impegno.
Le chiavi per tendere ad una inclusione “dall’ampio potenziale” sono da cercare in due principi: flessibilità dei programmi e valorizzazione della passione.
Se la personalizzazione è l’orizzonte di ogni processo che miri all’inclusione, la flessibilità è la strada concreta e scalabile che può portare ad essa. Flessibilità che si attua con percorsi che possano auto-diversificarsi in tempi e modalità, per adeguarsi a ritmi e competenze di ognuno. In merito alla passione, il punto centrale non è convergere verso argomenti che ricalchino strettamente le passioni dei discenti; bensì la passione va intesa come stato mentale (mindset). Riprendendo sempre Papert, servono attività impostate su “hard fun”: divertimento difficile, una attività sfidante, che necessita la nostra attenzione e concentrazione, una attività potenzialmente fallibile, che ci fa immergere nel flow, autotelica.
Gli studenti cioè sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l’osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera
Mark Fisher in Capitalist Realism
Approcci attivi e partecipativi nell’accessibilità
Uno dei vantaggi dell’uscire dalla dicotomia accessibilità-disabilità è poter considerare la diversità come un punto di forza rispetto alle finalità pedagogiche di una attività. Per cogliere appieno questo valore aggiunto, è necessario coinvolgere attivamente i soggetti che, nella progettazione standard e passiva, sono “oggetto” dell’azione di accessibilità. Nella Dichiarazione di Stoccolma sul “Design for All” (Dichiarazione di Stoccolma dell’European Institute for Design and Disability) si esige espressamente il coinvolgimento degli utenti finali in ogni fase del processo progettuale.
Bisogna sforzarsi di intendere il coinvolgimento non come semplice ascolto, ma come parte integrante del processo creativo. Progettare insieme un prodotto o servizio accessibile rende esso stesso più efficace, sviluppa l’auto-iniziativa nei soggetti con disabilità, permette di sviluppare competenze empatiche in uno scambio positivo, continuo e bidirezionale tra tutti i soggetti, che siano utenti soggetti dell’intervento inclusivo o meno. I momenti partecipativi acquisiscono ulteriore valore quando coinvolgono sia singoli che soggetti istituzionali o del terzo settore che rappresentano gli interessi delle persone coinvolte.
L’approccio attivo in ambito didattico porta anche ad una azione di mèta-inclusione. Progettare inclusione con i discenti permette di mettere al centro dell’insegnamento l’inclusione stessa, con aspetti che vanno dalla competenza tecnica in ambito dell’esperienza utente fino alla comprensione empatica delle esigenze di qualsiasi cittadino e utente dei e della responsabilità verso prodotti e processi sviluppati dagli studenti.
Nihil de nobis, sine nobis (Niente per noi, senza di noi)
Statuto della Polonia (1505)
Inclusione universale come metodo di partecipazione civica e sociale
Non vediamo l’inclusione semplicemente come una pratica attinente alla sfera dei diritti sociali, ma la decliniamo come vero e proprio paradigma centrale nella progettazione efficace e significativa di prodotti, servizi, contenuti e molto altro. Il punto di convergenza tra inclusione e progettazione è attualmente rappresentato dalla User experience design (UXD, progettazione dell’esperienza utente). L’esperienza utente si definisce come “le risposte e le percezioni di una persona che risultano dall’utilizzo o dal passato utilizzo di un prodotto, un sistema o un servizio” (definizione ISO 9241-210), e l’ux design è il processo progettuale che mira a studiare e migliorare l’esperienza utente. L’UX design sta sempre più integrando metodi e strumenti mutuati dalla progettazione inclusiva (Inclusive design improves UX for everyone) ma probabilmente pecca nel coinvolgimento attivo e partecipativo di persone con disabilità. Negli Stati Uniti, 1 adulto su 4 ha una disabilità che ha un impatto significativo sulle proprie attività quotidiane (fonte Centers for Disease Control and Prevention); tuttavia, nei team aziendali che si occupano di UX design sono rarissimi i casi in cui vengono integrati in maniera realmente attiva e partecipativa le stesse persone soggette dalla diversità che genera questo gap (approfondisci su Contentsquare). Un contesto ideale da cui partire nell’integrazione tra ux design e progettazione inclusiva “attiva” è forse l’ambito sociale e civile, dove pratiche partecipative e proattive sono spesso integrate nelle attività progettuali dei soggetti che operano nel settore.
Bisogna riconoscere l’unità in seno alla diversità, la diversità in seno all’unità (…) Riconoscere l’unità umana attraverso le diversità culturali, le diversità individuali e culturali attraverso l’unità umana”.
Edgar Morin
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